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Ci siamo. Archi in prima linea, poco dietro i legni, a destra le percussioni, in fondo il coro e io lì, davanti a tutti loro. Uno contro ventotto (tra coro e orchestra). Sì, non sono una quantità spropositata, ma diamine, loro sono lì anche grazie a me, che mi sono proposto per mettere in piedi tutto il sistema. È la prima volta che mi capita di contribuire a costruire qualcosa del genere. Immagino che, quindi, la tensione che avverto gravarmi sulle spalle, sia più che legittima. Mentre loro si preparano, sistemano le parti, io dico qualche parola al pubblico: spiego che stiamo per eseguire il Va’, pensiero, che è la prima volta che nel nostro Istituto musicale avviene una cosa del genere, racconto di quanta fatica ci sia costato preparare un brano così impegnativo: il Va’, pensiero lo conoscono tutti, ma eseguirlo come è scritto e soprattutto bene è molto molto difficile.
Tutti sono pronti. Il primo violino dà il la, e tutta l’orchestra si accorda con lui. Silenzio. Devo stare calmo. Se sono teso, l’orchestra sente la mia tensione e si irrigidisce, e quando un’orchestra è rigida, novantanove su cento finisce male. Li guardo negli occhi, richiamo la loro attenzione. Prendo un respiro, e giù. I primi sono gli archi, in ottava e unisono: gruppi di note lenti e minacciosi, come un temporale in lontananza, a cui rispondono legni tremolanti (lampi). Tutto rimane in pianissimo, un tappeto sussurrato. Poi un flauto, solo, fa una timida cadenza. Tutto si arresta per un secondo. Un interminabile secondo di quiete, proprio come nell’occhio del ciclone. Un gesto deciso e si aprono le cateratte del cielo: flauti e violini si trasformano in folgori, un serratissimo rullo di timpani diviene il tuono e sotto, come minacciose onde di un mare in burrasca, si agitano legni e contrabbasso. Dopo tre scrosci terrificanti, c’è un’altra pausa, ancora tensione, ma si scioglie subito in una docile cadenza dei legni. Adesso la tensione è veramente palpabile, è come una corrente elettrica che percorre ogni fibra del nostro essere. Conto fino a dieci, e partiamo. Dopo qualche respiro entra il coro:

Va’, pensiero, sull’ali dorate.
Va’, ti posa sui clivi, sui colli
ove olezzano tepide e molli
l’aure dolci del suolo natal!

Alle prove ho “frustato” tutti, e parecchio, ma ora le note scivolano via con naturalezza, con la stessa grazia naturale di un respiro. Il pubblico è silente, non si sente un fiato provenire dalla platea. Arriviamo finalmente alla conclusione del brano. Prima di battere le mani, hanno diligentemente aspettato il mio cenno conclusivo, ma ora che tutto è finito si sente tutta la loro partecipazione a quello che abbiamo creato lì, davanti a loro. Ventotto studenti (ventinove, se includiamo me) sono riusciti a vincere le ritrosie di un pubblico “estraneo” ed a diventare un tutt’uno con esso. Non posso lasciarmi sfuggire questa occasione. Faccio alzare in piedi l’orchestra, affinché riceva i meritati elogi, dopodiché li faccio sedere nuovamente. Mi volto verso il pubblico e dalla mia bocca escono queste parole: “Visto che siamo in un clima molto nostrano, insomma siamo praticamente in casa nostra, possiamo fare un po’ quello che vogliamo. Siccome il coro ha cantato benissimo e l’orchestra l’ha accompagnato alla perfezione, adesso ve lo facciamo risentire e, se volete, potete cantarlo insieme a noi… – mi volto verso l’orchestra e, dopo un momento di riflessione, torno al pubblico – … a tempo, però!”.
Dico all’orchestra di cominciare dalla battuta 12 (l’entrata del coro), non c’è ragione di rifarlo totalmente daccapo. All’inizio il pubblico era un po’ timoroso, ma già al terzo verso erano tutti con noi. Allora con il corpo descrivo un semicerchio e mi metto “di sbieco”: con la destra do il tempo all’orchestra e con la sinistra al pubblico. Alle parole “Arpa d’or dei fatidici vati” si sente una sferzata d’energia proveniente dalla platea, che infonde nuovo vigore ai “miei” musicisti. Faccio cenno di abbassare il volume: siamo arrivati ad uno dei punti più sofferti del brano (“O simile di Solima i fati/traggi un suono di crudo lamento“). Qui sento gli spettatori vacillare: non conoscono bene questo passaggio, e la maggior parte di loro preferisce assistere in silezio. Ma è solo per questi due versi: alla conclusione li sento intonare, con trasporto e convinzione, “oh, t’ispiri il Signore un concento!” come raramente m’è capitato di udire. Arriviamo alla fine, dove più che l’emozione, si sente la commozione del pubblico in quel “che ne infonda al patire virtù“. Che ci piaccia o no, dobbiamo ammetterlo: questo brano ci tocca nelle nostre corde, di noi come Italiani (la I maiuscola non è casuale), come nessun’altro pezzo può. Ormai fa parte di noi, è il nostro stesso sangue che ci scorre nelle vene, è l’aria che respiriamo. L’ultima parola, “virtù“, viene quasi esalata, ed il coro la tiene per un tempo che sembra interminabile. Alla fine ci risvegliamo tutti da una specie di stato dormiente. Per quei quattro minuti di musica, siamo stati tutti un solo corpo ed una sola anima. E tutti mossi da un semplice movimento della mia mano. Non ho altro da aggiungere se non… incredibile!